Tommaso Manzuoli, detto Maso da San Friano
Firenze 1531-1571
Materiale: Olio su tavola
Misure: cm 188 x 136
scheda critica a cura di gherardo turchi
L’opera, definita con indubbia perizia tecnica e orchestrata su una ricca gamma cromatica dove spiccano tinte lucide e preziosamente smaltate, rappresenta uno degli episodi biblici più diffusi in ambito artistico, ovvero il Sacrificio di Isacco. Tratta dal libro veterotestamentario della Genesi (22, 1-19), la storia, divenuta modello assoluto di obbedienza umana a Dio, narra di come un giorno il Signore per mettere alla prova la devozione di Abramo, impose a questi di sacrificare Isacco, l’unico figlio avuto, in età ormai avanzata, dalla consorte Sara. Pur nella più completa disperazione, il patriarca ebraico condusse il figlioletto nel luogo prescelto, ove compiere l’olocausto. Al momento però dell’immolazione, il Signore inviò dal regno dei cieli un angelo per impedire il sacrificio. Al posto dell’innocente fu ucciso, in omaggio a Dio, un montone, le cui corna, come apprendiamo dalle Sacre Scritture, erano rimaste impigliate ad alcuni rovi. Ricca di valenze simboliche, la storia è stata letta, a partire dal Medioevo, come prefigurazione della morte di Gesù Cristo, figlio unigenito del Signore inviato da questi sulla terra per essere immolato per la Salvezza Eterna dell’intera umanità.
Perfettamente in linea con il testo biblico, la tavola illustra, come in gran parte delle rappresentazioni artistiche dedicate allo stesso episodio, il momento culminante della storia, ovvero l’attimo nel quale l’angelo inviato dal Signore ad Abramo impedisce a questi il sacrificio del figlio. Ricco di forte carica empatica, il dipinto pone attenzione, al di là dell’ovvia priorità descrittiva data ai protagonisti del dramma, all’impaginato scenico dove, in un ameno paesaggio collinare con ruderi architettonici e una cinta muraria cittadina nello sfondo, sono descritti in secondo piano due servitori di Abramo in atto di piangere e il montone sotto alcuni alberi dalle alte fronde.
I caratteri di stile e la particolarità tipologica delle figure, soprattutto quella di Isacco, inducono ad assegnare l’opera, finora inedita, al catalogo pittorico di Tommaso Manzuoli, meglio noto come Maso da San Friano.
Figura di rilievo nell’ambito della pittura toscana della seconda metà del Cinquecento, Maso, nato a Firenze il 4 novembre 1531 nel rione di San Frediano dal quale gli derivò il soprannome, fu avviato in giovane età allo studio artistico dapprima nella scuola di Pier Francesco Foschi e poi in quella di Carlo Portelli, attraverso le quali, oltre ad acquisire le basi di un buon copista, si indirizzò alla realizzazione di ritratti e di opere d’invenzione basate sulla”Belle Maniera” di Francesco Salviati e sulle lezioni del Pontormo e del Rosso Fiorentino. Dopo l’esecuzione di copie, soprattutto copie di dipinti di Andrea del Sarto, l’artista si distinse, insieme ai ritratti tra i quali è da ricordare per importanza quello con i Due architetti nel Museo di Capodimonte a Napoli siglato e datato 1556, per raffinate pale d’altare nelle quali rivolse particolare attenzione alle formule linguistiche adottate dal Rosso Fiorentino, ben evidente nella sfaccettatura quasi tagliente dei panneggi delle stoffe e nella sagomatura allungata e spesso anti-naturalistica delle figure. L’irrequietezza delle sue immagini e le ambientazioni frequentemente ricche di oniricità contraddistinguono le sue pitture condotte per lo Studiolo di Francesco I in Palazzo Vecchio, dove, sotto l’egida di Giorgio Vasari e al fianco di artisti come Girolamo Macchietti e Mirabello Cavalori, realizzò opere degne della massima attenzione nel panorama della pittura toscana del tempo. Per motivi oggi non meglio noti, l’artista, al culmine del successo, morì nella città natale nel 1571 e il 2 ottobre il suo corpo fu inumato nella chiesa di Santa Maria del Carmine (per il profilo biografico dell’artista si veda S. Brevaglieri in Dizionario Biografico degli Italiani, 69, Roma, 2007; con bibliografia precedente).
La buona pratica affinata dall’artista in gioventù nella conduzione di copie di composizioni rinomate del primo Cinquecento si evidenzia, marcatamente, nell’esecuzione dell’opera in esame, mutuata, seppur con le leggere varianti, da una delle realizzazioni tarde di maggior successo condotte dal celebre Andrea del Sarto, artista amatissimo dai pittori e dai committenti toscani fino a Ottocento inoltrato.
Del celebre pittore fiorentino pre-manierista sono oggi note, in effetti, tre redazioni autografe, databili tra il 1527 e il 1529, tratte dalla stessa formula compositiva: due, identiche nell’assetto compositivo e nella descrizione dei dettagli ma diversificate nel formato, conservate rispettivamente nella Gemäldegalerie a Dresda e nel Museo del Prado a Madrid, e una, lasciata interrotta dall’artista e pertanto non ultimata in ogni sua parte, rubricata nelle raccolte del Cleveland Museum of Art. Alla redazione attualmente negli Stati Uniti sembra trarre ispirazione, in assenza di memorie di altri autografi sarteschi, la tavola qui analizzata, così come appare nella resa di ogni elemento figurativo e ornamentale di contorno alla scena in primo piano, come i due servitori piangenti e l’asinello che si abbevera, il borgo cintato e, ancora la disposizione dei panni in parte arrotolati alla base dell’altare sacrificale in pietra. Caratteri distintivi rispetto al modello di riferimento, che consentono di riconoscere nell’opera la piena autografia di Maso da San Friano, si rilevano però nelle sigle dei volti delle figure, decisamente estranee alle tipologie di Andrea del Sarto, e nella definizione pittorica dalle pennellate più compatte e dolcemente sfumate.
Databile con probabilità tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio anni Sessanta, la tavola, proprio per la particolarità tipologica dei personaggi e soprattutto per quella di Isacco, trova accostamenti pertinenti in opere di Maso, dipinte in quel tempo, come la Fortezza della Galleria dell’Accademia di Firenze (M. Onali in Il Cinquecento a Firenze. “Maniera Moderna” e contemporanea, catalogo della mostra a cura di C. Falciani e A. Natali, Firenze, Roma, 2017, pp. 266-267; con bibliografia precedente) e la Visitazione del Fitzwilliam Museum a Cambride (si veda A. Nesi, Per Maso da San Friano in “Arte Cristiana”, 2007, XCV, 838, pp. 22-23; con bibliografia precedente).