La Pietà



Bartolomeo di Giovanni d’Astore dei Sinibaldi Detto Baccio da Montelupo

Firenze, 1469 – Lucca, 1534

Materiale: Terracotta

Misure: 69,5 x 64 x 42 cm

Scheda critica a cura del prof. giancarlo gentilini e david lucidi

Il momento dell’ultima contemplazione del corpo di Cristo da parte della Madre è ritratto con toccante realismo proprio nell’istante in cui la Vergine, attonita, abbandonatasi ad un soffocato e intenso sospiro, sembra rivivere con malinconia quelle tenere effusioni che già dalla nascita del Figlio lasciavano presagire le sorti di un cammino terreno destinato a concludersi, così come aveva avuto inizio, nel grembo materno. La nobilissima, devota figura di Maria è assisa su un seggio quasi interamente celato dalle ampie e monumentali stoffe dell’abito monacale che ne avvolge mestamente il corpo, lasciando intravedere esclusivamente l’epidermide di mani e volto secondo l’iconografia della Mater dolorosa. Colando a terra in una cascata di bordure affilate e profondi anfratti, l’abbondante panneggio si raccoglie ai piedi della Vergine vivacizzandosi in ondulati risvolti di tessuto appiattiti al suolo, con una soluzione tipica dell’arte fiorentina del tardo Quattrocento ricorrente in artisti come Sandro Botticelli, Filippino Lippi, Lorenzo di Credi o Benedetto da Maiano. A dominare la composizione è la figura piramidale di Maria in posizione di perfetto contrapposto, con il movimento della gamba destra ad accordarsi con quello della testa reclinata accoratamente verso il basso, e costruita su di un asse inclinato che, oltre ad attribuire al gruppo un respiro monumentale, vi imprime anche un pacato movimento rotatorio.

Lo scultore dà prova di grande virtuosismo nell’esprimere nel nudo di Cristo il senso di una massa esanime abbandonata alle naturali leggi gravitazionali, ma soprattutto di elevata propensione naturalistica e conoscenza anatomica nel descrivere con così attenta minuzia un corpo assai elegante nelle proporzioni e raffinato nella modellazione degli arti, affusolati, ben definiti e levigati, ma allo stesso tempo scarno e ancora acutamente provato dal martirio della crocifissione.

I muscoli, prima tirati e sofferti di un corpo spiegato sul legno della croce, ora si contraggono mostrandosi al fedele con acceso turgore. La luce, infrangendosi sulle dune e le valli create dalla modulata muscolatura del ventre, modellata con estrema precisione, dà vita a vivacissimi trapassi chiaroscurali elettrizzando e drammatizzando la superficie del torso, intaccata dalla sola profonda ferita aperta nel costato. Le mani di entrambe le figure sono descritte con ammirevole naturalismo: carnose e con il consueto gonfiore nelle congiunzioni articolari dei polsi tipiche di una persona avanti con gli anni quelle della Vergine, longilinee ed eleganti per il soave scivolamento delle dita le une nella altre quelle del Cristo, incrociate all’altezza del perizoma come previsto dal rituale funebre.

Le teste, anch’esse definite con notevole accuratezza e sensibilità, si connotano per la forma ovale ed allungata, per i tratti somatici alquanto marcati che denotano la morfologia dei volti con zigomi ossuti e sporgenti, condotti nasali affilati e pronunciati, arcate sopraccigliari molto accentuate e delineate secondo la particolare forma a rondine, mentre gli incarnati, dalle superfici estremamente curate e levigate, appaiono solcati semplicemente da due rughe nette che scorrono intorno le labbra senza perturbare con accenti espressivi il pacato sentimento dei personaggi.

Il gruppo, inoltre, appare eseguito con grande maestria tecnica, modellato su un’anima effimera in un unico pezzo, accuratamente scavato all’interno di entrambe le figure e aperto sul retro al fine di favorirne una perfetta essicazione e cottura. Mutilo nelle gambe del Cristo all’altezza delle ginocchia, dove si notano i segni di un antico restauro, è oggi privo della policromia originaria, di cui deboli tracce si possono ancora scorgere nel manto della Vergine, sostituita in passato da una patina che ne ricopre uniformemente la superficie.

Questa nobile Pietà in terracotta fece la sua prima comparsa negli studi di storia dell’arte nel 1970, pubblicata sulle pagine della prestigiosa rivista d’arte e letteratura “Paragone” dalla studiosa tedesca Hildegard Utz con un’attribuzione a Giovanni della Robbia, indotta dal confronto con una figura di Maddalena inginocchiata ed una Pietà, opere entrambe in terracotta conservate presso il Victoria and Albert Museum di Londra, da lei ritenute anch’esse erroneamente del medesimo artista.

In effetti Giovanni non mancò di confrontarsi numerose volte con questa particolare tipologia figurativa, come nel caso della Pietà invetriata già nell’Ospedale di Santa Maria della Scala (1514) ora nel Museo del Bargello di Firenze, già adottata, ma con esiti ben più alti, anche dal padre Andrea, come testimonia la Pietà fittile custodita nel medesimo Museo fiorentino. Tuttavia i modi schematici e convenzionali che sempre contraddistinguono l’attività di Giovanni, evidenti proprio nella documentata Pietà di Santa Maria della Scala, hanno indotto la critica a non dar seguito ad una tale proposta, preferendo invece ricondurre la paternità dell’opera ad uno scultore ben altrimenti abile e qualificato, il fiorentino Baccio da Montelupo, con una datazione intorno al 1495, anno in cui l’artista era impegnato nell’esecuzione del Compianto in terracotta per la Chiesa di San Domenico a Bologna: opinione avanzata da Gentilini (1991), ricalcata successivamente dal Turner (1997) e rimasta fino ad oggi immutata. Non a caso, quella che la Utz riteneva essere la testimonianza di Giovanni della Robbia più vicina, per cultura e stile, alla nostra Pietà, tanto da pensarla parte di una medesima composizione – ossia la Maddalena del Victoria and Albert di Londra – è in realtà anch’essa un’opera oramai concordemente assegnata a Baccio da Montelupo.

Ed è proprio con il gruppo felsineo, oggi presso il museo della Basilica di San Domenico, di cui rimangono solamente quattro degli otto personaggi originari, con il monumentale Crocifisso intagliato nel 1496 per la chiesa di San Marco a Firenze, e quello di più piccole dimensioni tuttora custodito nella cella del Savonarola nell’omonimo Museo, opere che rappresentano il vertice qualitativo della produzione Baccio precedente il 1500, che la nostra Pietà mostra inequivocabili affinità stilistiche e culturali.

Impressionanti risultano infatti le tangenze con le figure del Compianto bolognese che in alcuni tratti appaiono addirittura sovrapponibili: i volti sono nitidi e levigati, definiti da tratti somatici marcati ed essenziali, identico è il modo di condurre i monumentali, ampi e avvolgenti panneggi, vi si nota la stessa maestria nel foggiare capigliature in ciocche filamentose dall’andamento serpeggiante, nell’imprimere ad ogni figura un’espressione di pacata e commovente sofferenza, focalizzata nei volti affranti, nelle bocche dischiuse, nelle fronti leggermente corrugate e segnate da una doppia incisione – tratto tipico dello scultore di Montelupo – nel curare, infine, il modellato delle mani, così ben descritte, lunghe e affusolate.

Se poi, nel grandioso Crocifisso di San Marco, la vigorosa muscolatura del nudo, che richiama anch’esse da vicino quella del nostro Redentore, è animata da un più intenso accento drammatico conferitogli dallo scultore in virtù del messaggio penitenziale che, dall’alto del transetto della Chiesa di San Marco, doveva riservare agli animi dei fedeli, è nel Cristo in croce conservato nella cella del Savonarola che si manifestano ancor più evidenti i contatti con il gruppo in questione.

Identiche appaiono infatti le forme spigolose e allungate delle teste, le pesanti arcate soppracciliari a forma di rondine – idioma ricorrente ed immutabile nel linguaggio di Baccio – il teso ed affilato condotto nasale, le chiome descritte dai rivoli di capelli che scivolano lungo le spalle. Ma ancor più stringente è la capacità dimostrata dall’artista nel proporre in maniera speculare, in forme ridotte e parimenti monumentali, la vibrante e formosa lavorazione delle muscolature del torace e del ventre.

Un’altra opera di Baccio da Montelupo a cui la nostra Pietà si avvicina con particolare decisione è il Crocifisso ligneo conservato attualmente sull’altare maggiore della chiesa di Santa Lucia a Settimello, con il quale condivide pure il teso e complesso modellato della muscolatura, gli arti ben torniti e affusolati, l’inteso pathos della bocca quasi senza labbra che sembra incisa da una lama affilata nella creta ancora malleabile.

Così, nel proporre una datazione per l’opera in questione non ci spingeremo al di fuori di quell’arco di tempo, compreso tra il 1495 e il 1500, all’interno del quale si scalano tutte le opere appena elencate e di cui la croce di Settimello sembra essere quella più avanzata, viste anche le ulteriori consonanze con il Crocifisso della Badia di Arezzo, sempre dello stesso Baccio, collocabile nei primissimi anni del Cinquecento.

Baccio, nato nel 1469 a Montelupo, patria della lavorazione ceramica nel contado fiorentino, dovette ricevere la sua prima educazione alle arti presso qualche maestranza locale per poi approdare a Firenze solo sul finire degli anni ottanta del Quattrocento, probabilmente nella più rinomata e produttiva bottega fiorentina di scultura, quella di Benedetto da Maiano.

Ricordato dal Vasari soprattutto per una consistente produzione di Crocifissi lignei e per i trascorsi giovanili nel “giardino” di Lorenzo il Magnifico, impegnato insieme a Michelangelo Buonarroti – col quale strinse una fraterna amicizia – Giovan Francesco Rustici, il Torrigiani, Andrea Sansovino, Giuliano Bugiardini e Lorenzo di Credi, nello studio del disegno e dell’arte antica sotto la guida del vecchio Bertoldo, la sua fama di scultore versatile e poliedrico si lega strettamente alle vicende del convento di San Marco, dove nel 1487 fu ordinato suo fratello Benedetto, e alla carismatica figura del riformatore domenicano Girolamo Savonarola.

La produzione del Montelupo nell’ultimo quinquennio del secolo XV divenne infatti il manifesto figurativo della spiritualità savonaroliana, chiosando con un linguaggio vigoroso e sobrio, lontano da qualsivoglia speculazione intellettuale e destinato a commuovere gli animi nella dolorosa contemplazione del mistero liturgico, gli ideali di una condotta religiosa ascetica e di una riforma pauperistica della chiesa ispirata alle virtù dei cristiani antichi e agli insegnamenti già proposti in passato dal Beato Dominici e da Sant’Antonio.

Collocato tra i capitoli canonici della scesa dalla croce e la deposizione nel sepolcro ma non codificato dalle fonti evangeliche, né dal culto ufficiale, il momento del ‘compianto’ sul Cristo defunto lasciava a mistici, esegeti, letterati ed artisti la possibilità di soffermarsi ed interpretare con accenti assai diversi il pathos di quell’ultimo istante di fronte al corpo deposto del Redentore.

L’idea di un concorso più ampio intorno alla spoglia esamine di Gesù giunse da uno scritto apocrifo attribuito allo stesso Nicodemo, esplicito nel ricordare un commiato dai toni fortemente drammatici da parte delle Marie dolenti, della Maddalena, di San Giovanni evangelista e della Madonna, colta, quest’ultima, in un pianto irrefrenabile e disperato.

Tuttavia da una particolare messa in scena presentata in termini così diretti e umanizzati, ben congeniale soprattutto alle esigenze di una religiosità popolare e della zelante predicazione degli ordini mendicanti, tra il XIII e XIV secolo, così come suggeriva di immaginare un trattato francescano intitolato Meditationes vitae Christi, si distinse la necessità di rivivere questo momento della passione congiunto ad una più specifica manifestazione dell’amore materno, descritto quindi con toni più pacati e suggestivo acume psicologico.

Da qui, arrivando nel corso del Trecento ad isolare il gruppo della Vergine con il figlio defunto in grembo, comincia a configurarsi quell’iconografia di enorme valenza emozionale che definiamo con il termine Pietà, concepita come concisa icona e puro soggetto di meditazione, anziché illustrazione di un evento narrativo, come avveniva invece con il Compianto, associandosi concettualmente alla più diffusa immagine della Madonna col Bambino: Pietà che quindi – potremmo dire – sta al Compianto come la Madonna col Bambino sta alla più descrittiva raffigurazione della Natività di Cristo.

In scultura la rappresentazione del tema della Pietà si diffuse con gran fortuna già nei primi decenni del Trecento soprattutto in area franco-germanica, dove, per la consuetudine di recitare le preghiere nell’ora dei Vespri – che nel Breviario corrispondeva al momento della discesa dalla Croce – innanzi al corpo del Cristo disteso sulle gambe della Vergine, aveva assunto la denominazione di Vesperbild. Queste raffigurazioni piuttosto schematiche e ripetitive, realizzate perlopiù in pietra, legno, stucco o terracotta, trovarono in seguito larga diffusione anche in Italia grazie all’attività di maestranze nordiche itineranti, ben presto imitate da botteghe locali e da scultori autorevoli impegnati a declinare e moltiplicare l’iconografia originaria secondo canoni espressivi legati alle differenti geografie artistiche e devozionali della penisola.

Tra questi vale la pena ricordare, per rimanere in ambito toscano, Dello Delli, Alberto di Betto d’Assisi, il Vecchietta e ovviamente Michelangelo Buonarroti, che nella giovanile, marmorea Pietà Vaticana (1498-99) adotterà questo particolare schema compositivo: una soluzione forse non estranea alla medesima scelta qui adottata negli stessi anni dell’amico Baccio da Montelupo.

Tale variante iconografia del tema, spesso accompagnata dalle figure della Maddalena e del San Giovanni Evangelista virginis custos, rara in altre parti d’Italia – dove prevale la raffigurazione del Compianto corale intorno al corpo di Cristo disteso sulla pietra dell’unzione – si diffuse con successo a Firenze tra lo scorcio del Quattrocento e i primi due decenni del Cinquecento, toccando il suo acme proprio in concomitanza della predicazione del Savonarola, il quale, attento alle sollecitazioni suscitate dalle opere d’arte nei fedeli e nei religiosi, non mancò di privilegiare nel repertorio figurativo domenicano immagini devozionali caste e severe, come per l’appunto la venerazione del Cristo defunto.

Ed ecco allora che Baccio nel gruppo in questione, quasi a glossare le parole del predicatore ferrarese, dà forma ad una figura di Maria “vestita come poverella, semplicemente, et coperta che appena se gli vedeva il viso”, composta nel suo immenso ma trattenuto dolore – “non pensate che piangesse come si dice… e non pensate che ella andasse gridando, non scapigliata né con modo indecente, perché poteva comandare alla parte sensitiva che non si dolessi”, affermava il Frate -, dunque priva di qualsiasi accento espressivo capace di distrarre il fedele dall’ossequio della pratica liturgica; mentre nella posa magniloquente, nella gestualità armoniosa lo scultore fa in modo che la nobile, austera immagine della Vergine ben si presti ai più alti ed imperturbabili esempi di gravitas romana.

Infatti, se la Pietà in ambito religioso era un’icona adatta a stimolare atteggiamenti di privata commozione di fronte al pathos dell’indissolubile binomio sacro, in un contesto pervaso da una diffusa cultura umanistica, quale la Firenze del tempo, appariva anche un’immagine tale da evocare ideali classici, come appunto la pietas inneggiante per i latini a valori di morigeratezza e decoro: e ancor più se realizzata in un materiale “umile e generoso” come la terracotta, che richiamava quegli stessi valori etici di austerità e integrità tanto declamati nel mondo antico da Plinio, fautore di un’arte semplice ed incorruttibile in contrapposizione al fasto corrotto dei propri tempi.

Si deve ad un pioneristico studio di Wilhelm Bode (1887) – il primo ad affrontare criticamente il tema della Pietà in scultura – l’aver individuato nella spiritualità savonaroliana e nell’indirizzo devozionale intrapreso dall’arte fiorentina sul finire del Quattrocento le motivazioni di una così vasta e capillare proliferazione di questo particolare genere di manufatti, ma anche l’aver segnato il percorso della critica successiva, incline a sottovalutare una produzione rimasta avvolta per troppi anni in un’aura di serialità e di sentimenti popolari ad essa non sempre confacenti. Come infatti ha recentemente precisato Francesco Caglioti (2007), quella sotto il frate ferrarese rappresenta solamente la fase di maggiore vitalità di un più vasto movimento pauperistico in seno alla chiesa, principiato già da tempo e riversatosi immediatamente in campo artistico con esiti di grande prestigio e valore formale.

I vertici qualitativi di una rappresentazione già consolidata dovettero raggiungersi intorno al 1493-95 con il celebre dipinto del Perugino per il convento di San Giusto alle Mura oggi agli Uffizi, con la Pietà in terracotta policroma dei Musei di Berlino, riferita da Gentilini (1991) a Leonardo del Tasso, fedele collaboratore ed erede di Benedetto da Maiano, e con il gruppo di Anrea della Robbia ora al Bargello, databile intorno al 1505. Ma la prima testimonianza a noi nota di una tale iconografia risale già al decennio che precede la venuta del Savonarola a Firenze, con la Pietà modellata da Benedetto da Maiano tra il 1480 e il 1490 per l’altare della famiglia Lapi nella chiesa di Santa Maria Nipotecosa a Firenze, di cui sopravvivono solo il busto della Vergine, presso il Museo “Amedeo Lia” di La Spezia, e la figura della Maddalena, ora una collezione privata di New York. Opera questa destinata a divenire il prototipo illustre per tutte le riedizioni posteriori del tema, che nel corso del 1494 veniva ancora scrupolosamente ricalcata da un gruppo oggi perduto commissionato dal nobile Francesco Talducci per la cappella di famiglia in Santa Trinita a Prato.

Dunque, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento trovarono larga diffusione in area fiorentina due principali tipologie di Pietà in terracotta: una, rappresentata dalle opere già menzionate – cui possiamo aggiungere i gruppi sansovineschi del Metropolitan Museum di New York e del Museum of Art di Philadelphia – comprensiva di quattro personaggi, con il Cristo che viene ad assumere una posizione di rigida orizzontalità e le figure di San Giovanni Evangelista e della Maddalena poste a sostenere rispettivamente capo e piedi del defunto. L’altra, più rara, direttamente ispirata dai Vesperbild nordici, composta da due sole figure, con la Vergine a sorreggere in grembo il corpo del Figlio disteso, inarcato drammaticamente verso il basso e con le gambe piegate a terra, testimoniata più spesso da immagini d’intonazione popolare, come i gruppi di San Pietro a Seano e della pieve di San Giovanni in Valdarno. Tuttavia non mancarono delle varianti, in cui anche le figure dell’apostolo prediletto e della giovane Maria Maddalena venivano ad affiancare il gruppo centrale di matrice vesperbildiana, variamente interagendo o meno con il corpo del Redentore adagiato sulle ginocchia della madre, come si vede a San Michele a Capugnano o a San Vivaldo. Pertanto, non è da escludere anche per la nostra Pietà un’originaria disposizione comprensiva delle due figure laterali, dato che almeno una di queste, il San Giovanni Evangelista, potrebbe essere riconosciuta in un’immagine in terracotta policroma di collezione privata, che denota stringenti affinità stilistiche con le opere giovanili di Baccio e misura anch’essa cm 69 di altezza.

D’altra parte, se la scultura in questione si accosta alle coeve, summenzionate raffigurazioni pietistiche popolareggianti per la composizione incentrata prevalentemente sulla figura di Cristo abbandonato all’amorevole abbraccio della Vergine, da queste si distingue per le dimensioni contenute e soprattutto per la raffinatezza plastica, tipiche dei manufatti di sentimento spiccatamente aulico, destinati ad un culto più intimo e riservato come quello di altari domestici, di confraternite laiche o di cappelle gentilizie: cosa che ci fa supporre un’opera concepita fin dall’origine come gruppo costituito da due sole figure.

Spetta, infine, a due autorevoli corrispettivi pittorici quali il dipinto del perugino Bartolomeo Caporali conservato nel Museo Capitolare di Perugia e la tavola del Museo di Santa Verdiana a Castiglion Fiorentino, eseguita intorno al 1497 da un allievo di Filippino Lippi noto con il nome di Maestro di Memphis, ad illustrare il possibile scenario espositivo prospettato in origine per la nostra Pietà.

Nel dipinto perugino il gruppo campeggiante sullo sfondo di un ricco e ornato tendaggio richiama infatti una consuetudine diffusa in ambito savonaroliano per i crocifissi di Baccio, dove si era soliti stendere alle spalle dell’opera un cupo e pesante panno nero così da smorzarne i toni e accentuare i caratteri penitenziali.

Mentre la tavola di Santa Verdiana, quasi sovrapponibile alla nostra composizione nell’immagine della Pietà, oltre a suggerire l’idea di come il gruppo avrebbe potuto inserirsi in un concorso più ampio di personaggi, magari dipinti sullo sfondo di una nicchia o di un tabernacolo, lascia presagire una possibile derivazione del dipinto proprio dall’illustre prototipo fittile di Baccio, che, confermatosi finora l’esemplare di più alta caratura di questa particolare tipologia, fu forse più volte imitato sia in scultura che in pittura, come la tavola in questione sembra appunto dimostrare.

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