Ritratto virile



Vittorio Barbieri

Firenze, 1674 – 1755

Materiale: Marmo bianco

Misure: Altezza 71 cm

SCHEDA CRITICA A CURA DELLA PROF. MARA VISONà

Nel capitolo della storia della scultura fiorentina tardo-barocca assume un significativo interesse l’acquisizione alla conoscenza del busto virile, il cui stile nonché la sigla inducono ad assegnarlo a Vittorio Barbieri, scultore raro ma noto negli studi storico-artistici. La sua personalità è stata messa in luce nelle indagini sulla scultura fiorentina intraprese a partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo. In particolare la sua formazione e le sue componenti culturali sono state rilevate in un esteso saggio della scrivente (Mara Visonà, Classicismo e sensibilità nella scultura di Vittorio Barbieri, in “Paragone”, XLII, 1991, 497, pp.39-67). La rarità di questo ritratto impone un’attenzione verso questo marmo che si lega a un altro esemplare autografo del Barbieri, accettato come tale dagli storici dell’arte. Mi riferisco al ritratto di Atto Melani, inserito nel 1715 nel cenotafio eretto nella cappella Melani della Chiesa di San Domenico a Pistoia (Mara Visonà, Carlo Marcellini. Accademico “Spiantato” nella cultura fiorentina tardo-barocca, Ospedaletto, Pisa, 1990, p. 71, fig. 31). Sebbene questo illustre personaggio sia scolpito ad altorilievo, entro una cornice ovata che ne contorna l’effige come in un medaglione, nondimeno il ritratto è, al momento, l’unico esempio con cui si può porre a confronto lo stile del busto qui presentato per la prima volta. L’identificazione dell’effigiato nel busto in esame rimane insoddisfatta, non avendo conseguito alcun risultato l’indagine, compiuta alla prima, sulle medaglie tardo-barocche dedicate a molti personaggi dell’ambito culturale fiorentino, sebbene il profilo dell’ignoto mostri caratteri così distintivi da aver sedotto e ispirato l’autore che rivela la sua inclinazione al gusto spiccato nella scuola fiorentina di rendere “al vivo” carattere e costume della persona da ritrarre nella sua dimensione fisica e spirituale.

Ciononostante si stenta ad ambientare a Firenze l’abbigliamento dell’ancor giovane personaggio perché esso sembra confrontarsi con le vesti proprie degli uomini di legge della nazione francese. “Le petit col à rabat” e “la calotte ronde” indossati dall’ignoto sembrano della stessa tipologia di quelli che vediamo, per richiamare un esempio significativo, nell’immagine del cancelliere Pierre Séguier (1588-1672), un marmo di Gérard-Léonard Hérard conservato al Musée du Louvre (1671-1673. Cfr. Geneviève Bresc-Bautier, Le Chancelier Pierre Séguier, in Portraits sculptés. XV-XVIII siècle. Collections du Musèe du Louvre et des Musées des Beaux-Arts de Dijon et d’Orléans, catalogo della mostra, Dijon-Orléans, Dijon-Quetigny, 1992, pp. 38-39, n. 11). Nondimeno esemplari della ritrattistica in Italia, particolarmente di scuola romana, mostrano l’abbinamento della calotta con il collo “à rabat” nelle vesti cardinalizie completate però dalla mozzetta (si veda in Andrea Bacchi, Scultura del ‘600 a Roma, Milano, 1996, fig. 240: busto del cardinale Francesco Maria Mancini di Francesco Brunetti, Roma, Museo di Roma; Ivi, fig. 390: ritratto di Gaspare Morone attribuito dubitativamente a Ercole Ferrata, Roma, Santa Maria del Suffragio).

Il richiamo ad abbigliamenti francesi per il marmo in esame suggerisce di collegarlo con il ritratto di Atto Melani, di cui è acclamato, nell’iscrizione apposta nel cenotafio, il percorso compiuto dal pistoiese alla corte di Luigi XVI al seguito del cardinale Giulio Mazzarino. Procedendo oltre su questa strada, potremmo avanzare l’ipotesi che il Barbieri abbia conseguito la commissione del busto dell’ignoto attraverso relazioni e committenze francesi, come si verificò, appunto, con il ritratto di Atto Melani, morto in Francia nel 1714. All’anno successivo risalgono la messa in opera del cenotafio e del ritratto postumo, ispirato evidentemente a una testimonianza inviata dalla Francia, dove il Melani aveva vissuto senza aver fatto ritorno in patria. Tale ricostruzione è asseverata dal recente ritrovamento di due disegni preparatori per il monumento funebre della cappella Melani con l’inserimento del ritratto del destinatario (Paolo Benassai, Chiesa e convento di San Domenico, piazza San Domenico, in Settecento illustre. Architettura e cultura artistica a Pistoia nel secolo XVIII, a cura di L. Gai e G. C. Romby, Pistoia, 2009, pp. 305-318, in particolare pp. 310-312). Se ne accettiamo l’autografia del Barbieri ancorché non abbiamo termini di confronto né essi sembrino appartenere alla medesima mano, osserviamo che il personaggio raffigurato appare in entrambi con fattezze giovanili, come se gli autori dei progetti grafici avessero avuto a disposizione un modello di quella età né avessero conosciuto l’età del Melani, deceduto quasi novantenne.

La dimestichezza con la Francia, qui ipotizzata sulla base di un, forse labile, indizio qual è l’abbigliamento, avrebbe procurato al Barbieri un’altra commissione, identificabile con il busto di ignoto.

Questo riassume le coordinate essenziali dello stile artistico del Barbieri. Nato nel 1674 a Firenze, fu allievo di Carlo Marcellini, da cui attinse i metodi, gli strumenti, le tecniche in voga nel barocco, volti ad amplificare le espressioni scultoree e decorative. Ventenne, nell’ultimo decennio del Seicento subentrò al maestro nel proseguimento della decorazione esterna della cappella di sinistra della Santissima Annunziata, quindi aiutò il Marcellini negli stucchi di Palazzo Ginori e dell’Abbazia di Vallombrosa, dove ebbe anche un ruolo di architetto nell’erezione degli altari della chiesa. Come scultore in marmo e pietra scolpì per Palazzo Corsini al Parione statue e busti (Mara Visonà, Carlo Marcellini. Accademico “Spiantato” nella cultura fiorentina tardo-barocca, Ospedaletto, Pisa, 1990, pp. 72, 73, 87, 88, 95, 101, 102, 121 nota 89).

Un notevole accrescimento delle facoltà artistiche del Barbieri come scultore in marmo si avverte nelle sculture della Villa Corsi a Sesto Fiorentino, una serie di marmi sorprendenti per la novità dei temi e delle forme, menzionati con apprezzamenti raramente usati in altre occasioni da Francesco Maria Niccolò Gabburri, cui si deve una biografia dello scultore (Mara Visonà, Classicismo e sensibilità nella scultura di Vittorio Barbieri, in “Paragone”, XLII, 1991, 497, pp. 39-67. A questo mio saggio rimando per un esame circostanziato della vita e delle opere dello scultore). Il suo contributo nel settore della ritrattistica, che come ho detto conta pochi esemplari, si distingue per caratteri propri, ben distinti dal dominante stile diffuso da Giovan Battista Foggini, cui tuttavia rimane debitore.

Con quest’opera, l’unico ritratto che, per la presenza della sigla, oggi possiamo ritenere sicuramente autografo del Barbieri (alla luce di questo ritrovamento, molto incerta è l’autografia dei busti che io stessa assegnai allo scultore), di notevole qualità per la sicurezza dell’impianto e le finezze esecutive, evidenti nella resa dell’espressione determinata e nell’effetto quasi respirante del busto, lo scultore entra in un orizzonte culturale in cui si delineò fra Sei e Settecento la modernizzazione del ritratto rispetto alla generazione precedente, condivisa da Giovacchino Fortini, Antonio Montauti e Girolamo Ticciati. Il suo nuovo sguardo mirava a una osservazione dell’effigiato concreta e vivace, incline a caricare l’asciutto profilo dell’uomo, cogliendone la fisionomia caratteriale nella sua singolarità, pur composta entro un quieto accademismo naturalistico di autorevole matrice discendente da Alessandro Algardi ed Ercole Ferrata, capace di suggerire le virtù civili e morali dell’individuo attraverso una connotazione accostante e distaccata ad un tempo.

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